Le sentenze sono quasi sempre un compromesso che l’uomo chiama giustizia.
André Gide
Un’ultima osservazione va fatta sui criteri decisionali su cui si basa il giudice nella formulazione del giudizio, argomento certamente complesso che merita approfondimenti [1]. Come vengono formulate verdetti e sentenze? Considerando che il rito italiano è ben diverso da quello dei Paesi della common law. Per esempio, la tradizione del diritto anglosassone prevede che l’imputato sia giudicato da una giuria composta da dodici «suoi pari».
È questa, non il giudice, che decide il verdetto (colpevole o non colpevole), sempre all’unanimità. Se questa unanimità non viene raggiunta si deve rifare il processo. In Italia, invece, l’onere del decidere è riposto esclusivamente nella figura del giudice, nelle varie figure del collegio, oppure nel giudice coadiuvato da altre figure, come quella dei giudici popolari, scelti tra i cittadini, nella composizione delle Corti di Assise e delle Corti di Assise d’appello.
Il codice imporrebbe l’osservanza della regola della condanna «oltre il ragionevole dubbio», in base all’art. 533 c.p.p., che si dovrebbe realizzare quando il dato probatorio acquisito esclude solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili, la cui concreta realizzazione non trovi il benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana [2].
In questo modo dovrebbe essere ritenuto prevalente il principio di civiltà giuridica, secondo cui deve pervenirsi a condanna solo quando si abbia la «certezza processuale» che la condotta illecita sia attribuibile all’agente come fatto proprio.

L’idea del magistrato che possa giudicare solo sulla base della logica e della razionalità è però più teorica che pratica. Si tratta di giudizi espressi da persone che, come tali, possono essere influenzate da percezioni soggettive e criteri valutativi che trovano fondamento sulla propria storia di vita e intelligenza emotiva [3].
Sentimenti ed emozioni possono avere un’influenza sui processi di ragionamento dato che tutti siamo dotati di una mente intuitiva che spesso si fa guidare da comportamenti di tipo euristico[4].
Tali comportamenti sono quindi comuni anche nel processo penale, specialmente nei processi indiziari.
In questi può essere presente un’innata tendenza al verificazionismo [5], cercando conferme nell’unica direzione del giudizio già maturato, un po’ come faceva il tiratore scelto texano. Per alcune vertenze penali si è infatti assistito nelle aule di giustizia a veri e propri scontri, senza esclusione di colpi, diatribe estenuanti basate proprio sulla valutazione della prova, con il risultato di vicende giudiziarie con esiti alterni, protratte per anni.
In mancanza di metodi razionali per la valutazione delle prove non dovrebbe quindi stupire che, rispetto al medesimo caso giudiziario, vi possano essere sentenze di segno opposto e capovolgimenti di valutazione dal primo al secondo grado o in Cassazione; in fondo, il fatto che esistano più gradi di giudizio offre la possibilità al sistema giudiziario di ritornare sulle proprie decisioni, a garanzia dell’imputato.
Timidamente si intravedono, però, dei segnali di svolta nel nostro ordinamento. L’introduzione nel processo di un’evidenza così robusta come quella genetica dovrebbe essere di aiuto per la ricostruzione storica di un fatto e quindi questa sembrerebbe porsi come un aiuto ai fini della decisione.
Nelle cause civili effettivamente i test del DNA fanno spesso la differenza. Basti pensare ai test di paternità che ormai sono fondamentali per le decisioni nel diritto di famiglia. In questi casi vi è generalmente un basso livello di scontro tra le parti, almeno quando non vi siano interessi economici rilevanti da tutelare.
La normativa sulla Banca dati del DNA qualifica poi la prova genetica fornendo al giudice e a tutte le parti processuali, un dato scientifico attendibile. Questo perchè la prova che lo produce è accreditata e dunque verificato da un ente terzo, indipendente e imparziale. Esso rappresenta quindi un modello sul quale potrebbe costruirsi un sistema giudiziario complessivamente più solido. E non solo per la genetica forense, ma per la prova scientifica e il suo utilizzo ai fini della decisione.
[1] Cf. A. De Francesco, Sul giusto processo, Alfredo De Francesco 2015 (ebook).
[2] Giovanni Canzio (L’“oltre ogni ragionevole dubbio” come regola probatoria e di giudizio nel processo penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. [2004], 304 ss.) definisce che «la regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio pretende (ben al di la della stereotipa affermazione del principio del libero convincimento del giudice) percorsi epistemologicamente corretti, argomentazioni motivate circa le opzioni valutative della prova, giustificazione razionale della decisione, standard conclusivi di alta probabilità logica in termini di certezza processuale, dovendosi riconoscere che il diritto alla prova come espressione del diritto di difesa estende il suo ambito fino a comprendere il diritto delle parti a una valutazione legale completa e razionale della prova».
[3] T. Lanciano et al., Promuovere e potenziare l’Intelligenza Emotiva: applicazioni in ambito forense, in Psichiatria, psicologia e diritto (2011), 5.
[4] A. Forza, Razionalità ed emozioni del giudicante, in Criminalia 2011, ETS, Pisa 2012, 353.
[5] P. Felicioni, La prova del DNA tra esaltazione mediatica e realtà applicativa.Archivio Penale 2012.