Diversamente dalla scienza sperimentale,
Luigi Luca Cavalli-Sforza
la scienza storica non dispone della possibilità di ripetere l’esperimento.
Ci sono delle differenze significative tra la prova in ambito civile e in ambito penale.
Il processo civile è strettamente correlato all’esercizio di una tutela, necessariamente giudiziale, che si esaurisce solitamente con la pronuncia del giudice. Dunque, la funzione principale del processo in ambito civile è quella di assistere il singolo per la realizzazione e l’esercizio di un suo diritto. Esiste anche una funzione più generale e dottrinale, oggi considerata meno prevalente, che considera il processo come una funzione pubblica diretta alla reintegrazione di un diritto oggettivo. Il giudice viene investito del compito di risolvere una controversia insorta tra due o più soggetti privati o tra questi e un ente pubblico.
Il processo penale è, invece, un istituto del diritto processuale penale, oltre che il modo d’attuazione principale della tutela dei diritti sanciti dal diritto penale. La parte lesa è lo Stato, che tutela i valori fondanti di un popolo proibendo determinati comportamenti umani, detti reati, per mezzo della minaccia di una specifica sanzione afflittiva, la pena.
Lo standard probatorio è sostanzialmente diverso nel processo civile e penale. Nel processo civile vale la regola del «più probabile sì che no». L’attore deve provare i fatti in modo tale da convincere il giudice che la propria ricostruzione appare più probabile di ogni altra ipotesi contraria, standard che vale comunque anche per il convenuto, la persona chiamata in giudizio. Se la prova da lui fornita appare insufficiente o contraddittoria, il giudice rigetta la domanda. Nel processo civile possono essere introdotte le cosiddette «prove legali», tra cui il giuramento e la confessione. In queste circostanze vi è obbligo per il giudice di introdurle nel processo. Le altre sono dette «prove libere» (art. 116 c.p.c.) e su queste il giudice, una volta introdotte, applica il proprio libero convincimento.
Nel processo civile vale anche il «principio di non contestazione», secondo il quale la non contestazione di fatti allegati dalla controparte vale quale relevatio ab onere probandi per il deducente, seguendo gli insegnamenti della più autorevole dottrina che, già da tempo, aveva ritenuto che per la concreta determinazione del thema probandum occorresse fare riferimento a un principio tacito, ma non per questo meno importante, in tema di prova: per l’appunto, il principio di non contestazione[1].
Il suddetto principio, ovviamente, non si applica al diritto penale, nel quale l’onere della prova grava sul pubblico ministero che deve provare, oltre ogni ragionevole dubbio, la colpevolezza dell’imputato. Anche nel caso di totale inattività della difesa, il giudice può sempre ritenere insufficienti o contraddittorie le prove fornite dall’accusa, o comunque tali da non superare il principio di innocenza e il ragionevole dubbio.
A proposito di prove legali e di genetica forense va rilevato come spesso vengano proposti da alcuni laboratori, anche con vendita di appositi kit di prelievo acquistabili in farmacia, dei test di familiarità o paternità con «valore legale», lasciando quindi intendere con questa definizione la possibilità di introdurli o comunque di creare una corsia preferenziale per il processo. Si tratta di un vero inganno, se non proprio di una truffa. Tale indirizzo è stato confermato varie volte dalle linee guida della Società italiana di genetica medica (S.I.G.U. www.sigu.net). Non sussiste infatti per il giudice alcun obbligo di introdurle nel processo, indipendentemente dalla qualificazione del laboratorio e dell’esperto. Per inciso, l’unica differenza tra gli altri test, quelli cosiddetti informativi, è che in questo caso non viene richiesta da parte del laboratorio che effettuerà gli esami l’identificazione dei campioni mediante documentazione e consensi.
Riguardo all’ammissibilità della prova a richiesta di parte, nella procedura penale vi sono specifiche disposizioni che la regolano sulla base dei criteri fondamentali della rilevanza e della non manifesta superfluità, secondo gli artt. 190 e 495 c.p.p. È il giudice che decide se un mezzo di prova possa accedere nel processo e successivamente basa il proprio convincimento sulla verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni che utilizza, ai fini della spiegazione del fatto.
Una volta che la prova è ammessa vige il principio generale della fase della valutazione (in tema penale ex art. 192 c.p.p.) e poi del libero convincimento con il quale si intende la discrezionalità del giudice, o del collegio, nel determinare la credibilità delle fonti e l’attendibilità delle rappresentazioni che queste fonti hanno portato nel processo, nel rispetto delle regole stabilite dai codici.
Nel processo penale italiano vale la regola dell’«oltre ogni ragionevole dubbio», già presente in alcune sentenze della Corte di Cassazione, ma definitivamente codificata con la legge n. 46 del 2006 (nota come legge Pecorella) e quindi nell’art. 533 c.p.p. L’espressione si riferisce a un ragionevole dubbio autentico, quel dubbio che è comprensibile da una persona razionale, non quindi qualcosa di meramente astratto. Si tratta della esplicitazione del noto principio garantista in dubio pro reo, cioè la presunzione di non colpevolezza della persona accusata di un reato, fino a prova contraria. Questa regola di giudizio impone alla parte della pubblica accusa, il pubblico ministero, di provare l’esistenza di un reato e non deve essere l’indagato a provare la propria innocenza.
Nessuna prova accede quindi direttamente al processo, se non attraverso il dibattimento, salvo pochi e tassativi casi. I più rilevanti sono quelli di seguito elencati.
Il primo è il caso in cui l’imputato scelga di procedere con uno dei cosiddetti «riti premiali», ovvero rito abbreviato e patteggiamento, nei quali il giudice acquisisce all’interno del proprio l’intero fascicolo del pubblico ministero, comprese le consulenze tecniche, oltre all’eventuale fascicolo delle indagini difensive, se effettuate. La decisione del giudice, dunque, sarà fondata su tutte le sommarie informazioni acquisite dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero sui documenti, le relazioni, le foto, le consulenze di parte; tutto ciò che, in parole povere, è stato utilizzato in fase di indagini per accusare e per difendersi. Una variante di questo primo caso è il «rito abbreviato condizionato» che prevede, appunto, la facoltà del giudice di ammettere l’imputato al rito abbreviato autorizzando l’acquisizione davanti a sé, nelle forme del dibattimento, di uno o più elementi di prova (ad esempio una testimonianza, ma anche una perizia).
Il secondo caso, frequentissimo in materia di prove tecniche, è l’incidente probatorio, disciplinato dall’art. 392 ss. c.p.p. Si tratta dell’acquisizione, nelle forme del dibattimento e dunque nel perfetto contradditorio delle parti, di una «prova anticipata» nella fase delle indagini e il cui risultato confluirà direttamente, se in futuro vi sarà il processo, nel fascicolo del dibattimento. L’incidente probatorio è governato dal giudice per le indagini preliminari.
Si acquisiscono prove utilizzabili direttamente nel dibattimento anche nel caso degli «accertamenti tecnici non ripetibili», un’ipotesi particolare di accertamento che, a causa della possibilità di modificazioni che subisce l’oggetto dell’investigazione, non è suscettibile di successiva reiterazione. Ciò giustifica la disciplina specifica, prevista nell’art. 360 c.p.p., in quanto l’atto investigativo entra a far parte del fascicolo del dibattimento (art. 431 c.p.p.) ed è direttamente utilizzabile ai fini della decisione. Trattandosi di una prova assunta fuori del dibattimento, la legge prevede un meccanismo che garantisca il normale contraddittorio e che l’indagato, la persona offesa e i difensori vengano avvisati, senza ritardo, della necessità di tale accertamento, con invito a partecipare agli accertamenti e a nominare eventualmente un proprio consulente.
Se gli accertamenti non ripetibili devono essere svolti in un procedimento allo stato contro ignoti, sono inapplicabili le garanzie difensive previste dall’art. 360 c.p.p., anche se gli atti compiuti sono pienamente utilizzabili in dibattimento. Nella pratica però è sempre opportuno che l’analista comunichi al pubblico ministero in maniera formale, anche per tramite della polizia giudiziaria, il tipo di attività che sta compiendo. E’ bene scandire i tempi, essendo sempre possibile che vi siano modifiche dal punto di vista delle attività delle indagini preliminari, ignote a chi esegue gli accertamenti.
Occorre tenere distinti gli «accertamenti irripetibili» dai «rilievi irripetibili». Questi ultimi rappresentano un’attività meramente prodromica all’effettuazione di accertamenti tecnici. Consistono nella verifica o nella raccolta di dati materiali pertinenti al reato e alla sua prova, cosicché, seppur irripetibili, la loro attuazione non deve avvenire con l’osservanza delle forme stabilite dall’art. 360 c.p.p. Per esempio il tampone stub, finalizzato al prelievo di eventuali residui dello sparo e indicativi dell’uso di armi da fuoco[2],
La forma dell’art. 360 c.p.p. deve essere rispettata anche a parti invertite. Se gli accertamenti tecnici irripetibili vengono effettuati dalla difesa l’utilizzabilità degli stessi è subordinata all’esecuzione delle formalità previste dall’art. 391 decies c.p.p. Altro caso di atti di indagine che migrano al fascicolo del dibattimento è la sopravvenuta imprevedibile irripetibilità (art. 512 c.p.p.). L’esempio classico è la morte improvvisa di una delle persone informate sui fatti, le cui dichiarazioni entrano nel dibattimento mediante lettura.

Si può parlare di dibattimento vero e proprio solo in caso di processo penale. Per sua natura segue le regole del principio di oralità.
E’ un’espressione sintetica adoperata per indicare un sistema di principi inseparabili. A questi bisogna riferirsi se si vuole intendere il vero contenuto di questa espressione.
Oralità significa:
- prevalenza del discorso parlato rispetto allo scritto;
- dialogo diretto fra l’organo giudicante e le persone di cui esso deve raccogliere e valutare le dichiarazioni;
- concentrazione della trattazione della causa in un unico periodo ri-stretto, se possibile in un’unica udienza o in poche udienze successive, con pronuncia della sentenza immediatamente dopo la chiusura del dibattimento orale;
- identità delle persone fisiche che costituiscono l’organo giudicante dall’inizio alla fine del processo, dato che questo si svolge quasi in forma dialogata e la convinzione del giudice si forma progressivamente attraverso il contatto personale che egli ha con le parti e coi testimoni.
Nel processo civile l’oralità è invece marginale. La procedura scandisce i tempi e le fasi tramite i termini per le memorie; da quella di costituzione del convenuto, istruttorie e di replica fino alle conclusionali e repliche. Per questo motivo non vi è alcuna necessità di rinnovazione degli atti nel caso di mutamento fisico dell’organo giudicante. Normalmente vede fisicamente avvocati e parti processuali per un tempo minimo.
Rispetto al processo penale, il processo civile è un vero «processo di parti». Da un lato c’è l’attore che formula la domanda volta a tutelare il soddisfacimento di un suo presunto diritto. Per esempio un uomo che voglia sia stabilita l’effettiva paternità del proprio figlio biologico. Dall’altro il convenuto che contrappone all’attore il proprio presunto diritto da tutelare. Questo può consistere nella contestazione della domanda altrui o nella rivendicazione di un proprio diritto contrapposto e incompatibile con quello dell’attore. Il giudice è il soggetto terzo, pubblico, che attribuisce la ragione e il torto soltanto sulla base delle prove richieste dalle parti.
Nel processo penale l’azione penale è obbligatoria. Il pubblico ministero non può operare mediazioni sull’imputazione e le parti non hanno esclusiva disponibilità dei mezzi di prova. Lo stesso giudice ne può acquisire di nuove, ovviamente anche di tipo scientifico, se risulta «assolutamente necessario» (art. 507 c.p.p.).
Nel dibattimento penale la prova si forma attraverso l’esame incrociato delle parti, in contradditorio tra le stesse. Il dibattimento costituisce il momento processuale fondamentale richiamato tra l’altro dalla Costituzione all’art. 111.

Non si tratta quindi di una prova acquisita in segreto, precostituita e che possa essere accettata senza discussioni. Vagliata dai diversi punti di vista delle parti processuali, la prova testimoniale si forma durante il dibattimento. Momento nel quale i testi vengono interrogati e rispondono alle domande delle parti. In questa occasione anche il perito deve testimoniare riguardo alle attività svolte per incarico del giudice.
Risponde anche alle domande del difensore che ne può effettuare il controesame. Stessa sorte anche per i consulenti del pubblico ministero e delle parti private.
Esaurita la fase probatoria e udite le conclusioni delle parti, giunge per il giudice il momento di decidere. L’organo giudicante, sia esso monocratico o collegiale, ha l’obbligo di motivare la propria sentenza che deve contenere determinati requisiti essenziali (art. 546 c.p.p.), tanto che la mancanza, la carenza o la contraddittorietà della motivazione ne può determinare l’impugnazione e l’annullamento. Ciò vale anche in materia civile, come stabilisce la sentenza della Cassazione, sez. V, dell’11-03-2015 n. 4851. Deve ravvisarsi il vizio di carenza di motivazione tutte le volte in cui la sentenza non dia conto dei motivi in diritto sui quali è basata la decisione. Dunque non consenta la comprensione delle ragioni poste a suo fondamento. Non evidenziando gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione e impedendo ogni controllo sul percorso logico-argomentativo seguito per la formazione del convincimento del giudice.
[1] P. Pisani, Ancora sulla allegazione dei fatti e sul principio di non contestazione nei processi a cognizione piena (nota a Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2006, n. 6092; Cass. civ., sez. lav., 6 febbraio 2006, n. 2468; Cass. civ., sez. lav., 30 gennaio 2006, n. 2035), in Foro It. (2006), 11, 1, 3143; il suddetto principio è stato codificato col nuovo assetto dell’art. 115 c.p.c. come modificato dalla legge 69/2009.
[2] Si tratta di un accertamento che ha praticamente sostituito il «guanto di paraffina». Era una tecnica invasiva che consisteva nel versare della paraffina liquida sulle mani o anche su parti del volto della persona che si riteneva avesse sparato. Seguivano determinazioni qualitative ricercando la presenza di nitrati. Gli accertamenti attualmente si effettuano mediante prelievo con materiali adesivi (stub) delle particelle presenti sulla pelle. Segue un esame in microscopia elettronica a scansione, con individuazione di alcuni degli elementi chimici presenti a seguito dello sparo (bario, antimonio e piombo).