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3.0 Aspetti normativi

È meno male non avere leggi, che violarle ogni giorno.

Ugo Foscolo

La giurisprudenza di legittimità e la dottrina italiana attribuiscono ormai da diversi anni all’esame del DNA una crescente credibilità ai fini della decisione. Anche se necessariamente si deve far ricorso all’interpretazione di sentenze, mancando regolamentazioni legislative sul tema specifico, sia in ambito civilistico che penale. Le leggi sono infatti solo quelle promulgate dal parlamento e rappresentano lo strumento astratto da utilizzare per regolare gli accadimenti della vita dei cittadini. Da questo versante solo oggi, con l’approvazione del regolamento per la Banca dati del DNA, le cose si stanno muovendo.

In linea generale, vigendo in Italia il principio della civil law, le sentenze non possono valere come leggi. A eccezione di quelle della Corte Costituzionale che può abrogare quelle emanate dal legislatore, qualora siano contrarie al dettato costituzionale.

In tema di prelievi biologici ne è un esempio la ben nota sentenza 238/1996 pubblicata in G.U. il 17-07-1996 n. 29, con la quale venne dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 224 c.p.p., comma 2. Nella parte in cui consentiva che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, potesse disporre misure che comunque incidevano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei «casi» e nei «modi» dalla legge.

Nella pratica, tuttavia, le pronunce della Suprema Corte di Cassazione, l’elemento di punta del nostro sistema giurisdizionale, restano fonti autorevoli. Esse costituiscono pietre miliari da citare davanti al giudice per avvalorare una tesi, nel caso di specie. È anche importante il modo in cui una sentenza è espressa. Se a farlo è una specifica sezione della Cassazione sia civile che penale, si resta nel caso delle sentenze standard.

Cambiano le cose se a pronunciarsi è la Corte di Cassazione a sezione unite. In quel caso essa svolge funzione di nomofilachìa (dal greco νόμος, «norma», unito al verbo φυλάσσω, che indica l’azione del «proteggere con lo sguardo»). Tende ad assicurare l’unità del diritto oggettivo nazionale, vigilando sull’esatta e uniforme interpretazione della legge. In particolare il primo presidente può disporre, in base all’art. 374 c.p.c., che «la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza».

In un certo senso tali sentenze indicano alle altre autorità giurisdizionali come dovrà essere applicata una certa norma di legge, da quel momento in avanti. Un altro caso in cui le sentenze trovano effettivamente una forza paragonabile a quella di una legge, si verifica in conseguenza delle decisioni degli “ermellini”. Nei procedimenti di natura civile, rivolti principalmente agli accertamenti della paternità genitoriale, sono numerose le pronunce della Corte di Cassazione. Relative a vari aspetti, tutte comunque volte a ribadire l’importanza degli accertamenti genetici quali mezzo di prova. Ritenuti sostanzialmente idonei per verificare la realtà biologica all’interno di un gruppo di individui.

La Corte Costituzionale con sentenza 10-02-2006 n. 50 ha dichiarato infatti l’incostituzionalità dell’art. 274 c.c., che subordinava l’esercizio dell’azione di riconoscimento giudiziale al previo esperimento di una procedura di ammissibilità. Prima di iniziare la causa vera e propria nei confronti del padre o della madre naturale, l’interessato doveva compiere un’attività preliminare. Doveva dare impulso a un preventivo giudizio di delibazione. Con indagine sommaria e segreta, a seguito della quale il tribunale doveva valutare e vagliare l’esistenza di indizi tali da far apparire giustificata l’azione.

Per esempio si doveva dimostrare, anche con testimoni, l’esistenza di una relazione tra l’uomo e la donna. Da questa doveva essere verosimile che fosse nato il figlio naturale. Considerando che alla decisione del tribunale si poteva far ricorso in appello e, avverso, si poteva ricorrere alla cassazione, le richieste potevano durare anche molti anni. Solo dopo questo periodo poteva essere introdotta la prova genetica. Si trattava di cause molto lunghe, estenuanti dal punto di vista emotivo e costose da quello patrimoniale. Per i gradi di giudizio e le distanze tra udienze successive, spesso di molti mesi.

Mi è effettivamente capitato più volte di effettuare esami genetici peritali dopo cinque, sei anni dalla richiesta istruttoria iniziale. Di fronte a persone estenuate da questo interminabile iter processuale. Con questa sentenza si offre all’interessato la possibilità di dare azione alle proprie pretese in sede di merito. Può citare immediatamente in giudizio il presunto padre naturale per vedersi riconosciuto lo status di figlio naturale, attraverso il ricorso all’esame del DNA. L’importanza della pronuncia è tale che numerose sono state, da allora, le sentenze che vi hanno fatto riferimento. Ribadendo quindi l’indirizzo costante della giurisprudenza a ritenere sostanzialmente probante l’esame genetico [1].

L’orientamento della giurisprudenza si è rapidamente indirizzato anche nel riconoscimento della validità scientifica degli accertamenti indiretti sul DNA. Con la pronuncia della Corte Suprema di Cassazione con la sentenza 16-04-2008 n. 10051, si è statuito che il rifiuto da parte di presunti fratelli di sottoporsi al test del DNA rappresenta un elemento di prova favorevole a chi chiede il riconoscimento, ai fini decisionali ex art. 116 c.p.c. Il caso riguardava una donna che conveniva in giudizio i prossimi congiunti di un defunto, del quale assumeva essere la figlia naturale, chiedendo che fosse accertata la suddetta paternità e, di conseguenza, fosse dichiarata la sua qualità di erede universale. Il tribunale, accogliendo la domanda della ricorrente, ne dichiarava la sua qualità di figlia naturale, visto il rifiuto di sottoporsi al test degli eredi, revocando al contempo il testamento olografo redatto dal defunto. Tale indirizzo ermeneutico è restato costante negli anni.

Più recentemente la Cassazione civile (sez. I, sentenza del 25-03-2015 n. 6025) ha richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 13, 15, 24, 30 e 32 della Costituzione, del combinato disposto degli artt. 269 c.c. e 116 e 118 c.p.c., ove interpretato nel senso della possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici al fine dell’espletamento dell’esame del DNA.

Dall’art. 269 c.c., infatti, non deriva una restrizione della libertà personale. Avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all’assoggettamento o meno ai prelievi. Mentre il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa. Il rifiuto aprioristico della parte di sottoporsi ai prelievi non può ritenersi inoltre giustificato. Nemmeno con esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto del fatto che l’uso dei dati nell’ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia. Nè del fatto che il sanitario chiamato dal giudice a compiere l’accertamento è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della legge 31-12-1996, n. 675 (legge sulla privacy).

Occorre ricordare, inoltre, la sentenza della Corte di Cassazione dell’112-2015, n. 24444 con la quale è stato sancito che possono configurarsi quali elementi di prova rilevanti per far scattare il riconoscimento di paternità, le circostanze che la salma del padre defunto sia stata cremata e che gli altri figli si rifiutino ingiustificatamente di sottoporsi all’esame del DNA.

Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, il giudice di primo grado aveva riconosciuto che il padre dei ricorrenti aveva un’altra figlia, nata da una relazione extraconiugale. Altra pronuncia decisiva, anche questa intesa a modernizzare e adeguare la giurisprudenza al nuovo contesto sociale, è la sentenza del 6-072006 n. 266, nella quale la Corte Costituzionale ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’art. 235, comma 1, n. 3 c.c. nella parte in cui sanciva, nei giudizi di disconoscimento di paternità, la subordinazione della prova scientifica alla dimostrazione dell’avvenuto adulterio della moglie. In sostanza la Consulta, con tale pronuncia, aveva inteso censurare qualsiasi limitazione al diritto alla prova nei giudizi attinenti agli status della persona, in ottemperanza al dettato dell’art. 30 della Costituzione.

Da allora si ritiene pertanto che vada esclusa qualsiasi gerarchia tra la prova storica dell’esistenza del rapporto sessuale nel periodo del concepimento e quella scientifica relativa all’esame del DNA. La sentenza della Consulta ritiene, anzi, che l’immotivato rifiuto di consentire il prelievo ematico è comportamento da valutarsi dal giudice come argomento di prova dal valore indiziario così alto da poter, anche da solo, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda. Un altro aspetto interessante è quello riguardo al tema del prelievo per gli esami del DNA. La sentenza della Cassazione civile, sez. I, del 13-092013 n. 21014 ha indicato che è «illegittimo il trattamento dei dati genetici ottenuto senza il consenso dell’interessato, anche se l’utilizzo è finalizzato a far valere un diritto in sede giudiziaria, nella specie l’azione per il disconoscimento di paternità».

A differenza dei dati sensibili di cui all’art. 4 d.lgs. 196/2003, che sono quelli idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni e organizzazioni, nonché i dati personali che rivelino lo stato di salute e la vita sessuale, i dati genetici possono anche corrispondere in parte con i dati sensibili. Ma la sovrapponibilità tra le due categorie è relativa e non integrale. Tramite i dati genetici di una persona si ottiene infatti un corredo identificativo unico ed esclusivo. Informazioni che non necessariamente si riconducono a quelle di natura sanitaria. La legge sulla privacy, infatti, prevede un’apposita disciplina richiamata dall’art. 90 che non solo richiede un’autorizzazione ad hoc, ma individua gli elementi da includere nell’informativa tra cui la specifica finalità e i risultati conseguibili.

Dopo un’evoluzione normativa durata decenni, la disciplina della protezione dei dati personali ha trovato un nuovo fondamento nel Regolamento Europeo Privacy, entrato in vigore il 25 maggio 2016 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 4 maggio dello stesso anno.

Tale “Regolamento UE 2016/679 Relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati”, comunemente noto come GDPR o Regolamento Europeo Privacy, mira a creare un sistema di regole comuni che tuteli gli interessati rispetto agli effetti distorsivi della libera circolazione dei dati personali.

L’Unione Europea ha quindi fissato al 25 maggio 2018 il termine ultimo entro il quale gli Stati Membri hanno dovuto adeguarsi al GDPR. Per farlo, in Italia si è proceduto, attraverso il D.Lgs. 101/2018, ad armonizzare il preesistente Codice Privacy (il D. Lgs. 196/2003) con il nuovo testo del Regolamento Europeo. È nata così una nuova normativa privacy nazionale, che prevede quindi la sopravvivenza del vecchio Codice Privacy, revisionato nel 2018 per allinearsi alla disciplina europea.

Nel caso di specie il padre aveva prelevato alcuni mozziconi di sigarette del figlio per far effettuare un esame genetico a scopo identificativo. Ma il figlio si era rivolto al Garante per la privacy per ottenere il blocco e la cancellazione dei dati genetici a lui attribuiti. Ritenendo che gli stessi fossero stati trattati in modo non conforme alle disposizioni in materia di protezione dei dati personali. Il tribunale di Roma, in sede di appello, e in base all’art. 90 d.lgs. 196/2003, confermò l’osservazione del Garante che aveva a tal fine acquisito il parere del Consiglio superiore di sanità.

In ogni caso la« prova principale» della filiazione, ai sensi dell’art. 236 c.c., si fornisce con «l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile», un sistema probatorio individuato dalla legge che mira a ottenere rapidamente l’attribuzione dello status di figlio, a garanzia del minore [2].

Anche in ambito penale sempre più numerose sono le novità nella giurisprudenza italiana. Esse danno legittimità agli accertamenti genetici per l’identificazione personale. Oltre ovviamente alla legge 85/2009 vi sono diverse pronunce che indicano una sempre più costante accettazione del valore identificativo del DNA nel processo.

Già riguardo al prelievo vi erano indicazioni che mettevano in evidenza come il rifiuto dell’imputato, pur in presenza di modalità non invasive, di consegnare o lasciar prelevare materiale biologico utile all’espletamento di un accertamento genetico, potesse essere considerato come elemento di prova nelle valutazioni del giudice (cf. Corte di Cassazione, sez. II, sentenza del 17-11-2004 n. 44624, Alcamo). Lo scoglio del prelievo è stato definitivamente superato, dopo il perdurare di un vuoto legislativo di tredici anni, grazie all’introduzione dell’art. 224-bis c.p.p. che disciplina infatti, all’interno della perizia, la possibilità di effettuare un prelievo alla persona di cui si vuol determinare il profilo genetico [3].

A fronte di un eventuale rifiuto del soggetto passivo il giudice dispone, con ordinanza motivata, l’esecuzione coattiva del prelievo. Questo naturalmente se l’accertamento risulta assolutamente indispensabile per la prova dei fatti. Tale possibilità è prevista anche per il pubblico ministero, per poter effettuare accertamenti tecnici nell’ambito della consulenza, attraverso l’introduzione dell’art. 359-bis c.p.p., previa autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, qualora si opponga il rifiuto dell’indagato.

La legge nr. 85 del 30-06-2009

La stessa legge n. 85 disciplina poi un cosiddetto «prelievo istituzionale», per le finalità previsionali della legge e la determinazione del profilo genetico per quei soggetti indicati all’art. 9.

aspetti normativi

«Art. 9 – Prelievo di campione biologico e tipizzazione del profilo del DNA

1. Ai fini dell’inserimento del profilo del DNA nella Banca dati nazionale del DNA, sono sottoposti a prelievo di campioni biologici:

  1. i soggetti ai quali sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari;
  • i soggetti arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo di indiziato di delitto;
  • i soggetti detenuti o internati a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo;
  • i soggetti nei confronti dei quali sia applicata una misura alternativa alla detenzione a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo;

e) i soggetti ai quali sia applicata, in via provvisoria o definitiva, una misura di sicurezza detentiva.

2. Il prelievo di cui al comma 1 può essere effettuato esclusivamente se si procede nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 per delitti, non colposi, per i quali è consentito l’arresto facoltativo in flagranza. Il prelievo non può essere effettuato se si procede per i seguenti reati… segue…».

In questo caso non sono previste forme particolari di garanzia, dandone per scontata l’eventuale esecuzione coattiva nei casi di rifiuto. Con riguardo alle indagini d’iniziativa della polizia giudiziaria (artt. 55 e 348 c.p.p.) tese alla ricostruzione del fatto storico e all’individuazione del colpevole, occorre evidenziare che sono considerati certamente utilizzabili i campioni biologici abbandonati volontariamente. Tra questi si possono ricordare, come esempi non certo esaustivi, mozziconi di sigarette, bicchieri, tazzine, lasciati dalla persona dopo averli utilizzati. A tal riguardo e sulla legittimità della procedura si può ricordare la sentenza della Cassazione penale del 5-12-2013 n. 48907, che in esteso riporta:

È legittima l’attività di raccolta di tracce biologiche riferibili all’indagato eseguita dalla polizia giudiziaria senza ricorrere ad alcun prelievo coattivo, ancorché posta in essere all’insaputa dello stesso. La procedura prevista dall’art. 224-bis c.p.p., introdotta con la legge 85/2009, deve essere attivata solo quando non vi sia il consenso della persona nei cui confronti deve essere effettuato il prelievo, e quindi non vi è alcuna necessità di ricorrere a detta procedura se sia stato già acquisito in altro modo il campione biologico, con le necessarie garanzie sulla provenienza dello stesso e senza alcun intervento coattivo sulla persona.

Anche l’esame del DNA effettuato su dei mozziconi di sigarette fumate dall’imputato, mentre era intrattenuto negli uffici dei Carabinieri, è utilizzabile. Non è qualificabile come atto invasivo o costrittivo e non richiede, perciò, l’osservanza delle garanzie difensive (Corte di Cassazione penale, sez. V, sentenza del 15-11-2013 n. 45959, Marasca).

Merita menzione, inoltre, la sentenza del 25-07-2014 n. 33076 della Suprema Corte di Cassazione, sez. II. Qui si precisa che la raccolta di reperti di tracce biologiche da utilizzare per la comparazione del DNA, qualora non incida sulla libertà personale, può avvenire senza contraddittorio e l’esito del raffronto può essere utilizzato come prova nel dibattimento.

Riguardo al valore probatorio delle analisi del DNA, recentemente una sentenza indica che «nei casi in cui l’indagine genetica non dia risultati assolutamente certi, ai suoi esiti può essere attribuita valenza indiziaria» (Corte di Cassazione, sez. II, sentenza del 5-02-2013 n. 8434, rv. 255257).

Tuttavia, già da oltre un decennio vi erano indicazioni riguardo all’alto valore probatorio attribuito all’esame del DNA. Orientamento che sarebbe stato ribadito in altre sentenze negli anni successivi. L’episodio su cui la Suprema Corte era stata chiamata a pronunciarsi si riferiva a un caso di omicidio. Un uomo era accusato di aver ucciso l’amante della moglie a Valdobbiadene, provincia di Treviso, colpendolo alle spalle con una roncola e, poi, sgozzandolo.

Gli investigatori avevano trovato su di uno zerbino una mistura di sangue con il profilo genetico dell’omicida e della vittima. Con la sentenza sez. I del 30-06-2004 n. 48349 la Corte di Cassazione penale aveva confermato la condanna a quattordici anni e sei mesi di carcere, riconoscendo la natura di prova delle risultanze delle analisi genetiche sul DNA. In particolare gli “ermellini” avevano stabilito che «gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma secondo».

Nella stessa sentenza i giudici indicavano che tale validità era comparabile a quella che, a suo tempo, aveva consentito di ritenere per valide le impronte digitali. Questo a fronte dell’individuazione di punti identici per posizione e numero su due termini in comparazione; era un primo tentativo di ricondurre a un filo comune questi due importanti settori della criminalistica.


[1] Cf. per es. Cass. civ., sez. I, sentenza del 14-11-2008 n. 27237; Cass., sentenza del 2910-2013, n. 24361; Cass., sentenza del 31-07-2015 n. 16226.

[2] Per questo motivo, nel caso di una coppia separata da oltre cinque anni dall’omologa e dunque con separazione legale accordata dal tribunale, un uomo si è visto attribuire la paternità di un bambino, dichiarato come figlio della coppia dalla madre. Il tribunale di Arezzo, infatti, con la sentenza dell’11-03-2015 n. 313 ha ribadito la prevalenza della presunzione di paternità basata sul possesso dell’atto di nascita del figlio anche se nato durante il periodo di separazione dei coniugi. Il padre del minore, secondo il tribunale di Arezzo, avrebbe dunque dovuto esercitare l’azione di disconoscimento o l’azione di reclamo di legittimità di cui all’art. 248 c.c. con la quale si contesta la validità del matrimonio, il parto o l’identità del figlio. I tempi come noto sono strettissimi, un anno dalla nascita o dalla scoperta dell’adulterio della moglie o della propria impotenza all’epoca del concepimento.

[3] L’art. 224 bis, Provvedimenti del giudice per le perizie che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale, recita al primo comma: «Quando si procede per delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni e negli altri casi espressamente previsti dalla legge, se per l’esecuzione della perizia è necessario compiere atti idonei ad incidere sulla libertà personale, quali il prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA o accertamenti medici, e non vi è il consenso della persona da sottoporre all’esamedel perito, il giudice, anche d’ufficio, ne dispone con ordinanza motivata l’esecuzione coattiva, se essa risulta assolutamente indispensabile per la prova dei fatti».