A giudicare per induzione e senza la necessaria congiunzione dei fatti, si fa alle volte gran torto anche ai birbanti.
Alessandro Manzoni
Il tema dei rapporti tra diritto e scienza è da tempo oggetto di ampie discussioni tra giuristi e scienziati. Poiché spesso si ha a che fare nel processo con la prova scientifica, questi due universi debbono per forza confrontarsi, perché le loro attività si intersecano in modo ineluttabile. Volendo utilizzare una definizione, si può dire «prova scientifica quella che, partendo da un fatto dimostrato, utilizza una legge scientifica per accertare l’esistenza di un ulteriore fatto da provare» [1].
La scienza rientra nelle cosiddette «prove critiche o indizi» accogliendo un metodo controllabile dagli studiosi nella formulazione delle regole, nella verifica e nella falsificabilità delle stesse. Si tratta quindi di materia che interessa più gli scienziati che i giuristi, cioè dovrebbe essere l’ambito scientifico a stabilire quando un accertamento di qualunque natura, chimico, merceologico, biologico, raggiunge un livello di qualità tale da renderlo attendibile.
C’è stata però un’evoluzione negli anni del modo di concepire l’evidenza nel processo. Fino al secolo scorso era accettata una concezione positivista della scienza, considerata illimitata, completa e infallibile. Già dagli studi della metà del secolo scorso ci si è accorti che non è così. La scienza è limitata, perché di un fenomeno è possibile cogliere un numero limitato di aspetti. Incompleta, nel senso che appena sono scoperti nuovi aspetti essa deve essere aggiornata oppure abbandonata. Fallibile, perché vi è sempre un tasso di errore, la cui conoscenza ne rafforza, anzi, la validità.
L’approccio oggi accettato consiste nel procedere a tentativi di falsificazione, al fine di verificare se le teorie sono così robuste da resistere al contraddittorio degli esperti, una specie di dibattimento scientifico nel quale specialisti della disciplina tentano di dimostrarne la non veridicità della teoria esposta.
È il fenomeno del «falsificazionismo»che risale agli studi di Karl Popper [2], il quale affermava che
l’induzione, cioè l’inferenza fondata su numerose osservazioni è un mito. Non è né un fatto psicologico, né un fatto della vita quotidiana, e nemmeno una procedura scientifica […]. Il procedimento effettivo della scienza consiste nell’operare attraverso congetture […]. Le osservazioni e gli esperimenti reiterati fungono, nella scienza, da controlli delle nostre congetture o ipotesi, costituiscono, cioè, dei tentativi di confutazione.
Secondo Popper esiste un ragionamento deduttivo, come ad esempio la dimostrazione di un teorema, ma non esistono ragionamenti induttivi, concetto condiviso tra l’altro con Albert Einstein. Vedo un corvo nero, ne vedo un altro e un altro ancora e quindi ne deduco che «tutti i corvi sono neri». Per falsificarla basta trovare un caso che vada contro questa legge, per esempio trovare un corvo bianco, se abbiamo ipotizzato appunto che tutti i corvi siano neri. Dal punto di vista logico, infatti, non si potranno mai osservare tutti i casi particolari e quindi trovare quello che non conferma la regola; o almeno non si può esserne certi.
Vi è un passo tratto dalla monografia di Popper The Poverty of Historicism, spesso citato anche da studiosi del diritto, che recita:
La scoperta di esempi che convalidano la teoria vale pochissimo se non abbiamo tentato, senza riuscirvi, di trovare gli esempi che la confutano. Perché, se abbiamo poco senso critico, troveremo sempre quello che desideriamo: cercheremo e troveremo delle conferme; distoglieremo lo sguardo da ciò (e quindi non lo vedremo) che potrebbe mettere in pericolo le teorie che ci sono care. In questo modo è facilissimo ottenere prove, apparentemente schiaccianti, di una teoria che, se fosse stata invece avvicinata con animo critico, sarebbe stata confutata [3].
In questo senso Popper introduceva già i concetti di euristica che, più tardi, sarebbero stati sviluppati e oggetto di un settore specifico di studi inerenti la psicologia cognitiva, grazie ai lavori di Daniel Kahneman e Amos Tversky.
Un’ipotesi scientifica, e come tale universale, potrebbe essere logicamente falsificata da un dato osservativo. Per esempio l’asserzione che «non ci sono due impronte digitali che contengano gli stessi 16 punti per forma e posizione» potrebbe essere confutata dall’aver individuato due persone diverse che condividessero questa caratteristica. Lo stesso varrebbe sull’asserzione che «non ci sono due persone con lo stesso profilo genetico, per 16 marcatori, a eccezione di gemelli monozigoti».

In entrambi i casi occorrerebbero dati osservazionali su un’ampia casistica, per poter determinare se le asserzioni sono vere. Altrimenti dovrebbe essere necessario introdurre un tasso minimo di errore allorché si decidesse per un’identificazione.
Il fatto è che, fino a oggi, effettivamente, non si sono mai trovate due impronte identiche o profili genetici identici a 13-16 marcatori. Solo se originano dalla stessa persona. Su questo dato osservazionale, forse un po’ anacronistico, si sorreggono i giudizi e le motivazioni delle sentenze italiane.
In linea di principio è impossibile separare nettamente i dati dalle teorie. Nella pratica della ricerca scientifica, di fatto, ci si arresta nel controllo ad asserzioni sulla cui accettazione i ricercatori e la comunità scientifica possono facilmente accordarsi. Come diceva Sherlock Holmes, «quando hai eliminato l’impossibile, qualsiasi cosa resti, per quanto improbabile, deve essere la verità» [4]. In Italia si sta lentamente diffondendo l’eco di quel complesso dibattito, sviluppatosi e alimentatosi negli ordinamenti di common law tra fautori dell’uso in sede processuale di teoremi matematico-probabilistici e coloro che, in vari modi, si sono opposti all’utilizzo di metodi formali. Si introduce il dibattito su metodi per misurare l’incertezza relativa a come si presentano le evidenze scientifiche nelle corti; davvero un altro mondo [5].
E’ comunque assolutamente escluso che la prova scientifica introduca un sistema di prova legale nel processo italiano. Concetto più volte ribadito in numerose massime. Anche recentemente (Corte di Cassazione, sez. IV penale, sentenza del 29-04-2015, n. 18080) la Suprema Corte ha evidenziato, sul piano metodologico, che
qualsiasi lettura della rilevanza dei saperi di scienze diverse da quella giuridica, utilizzabili nel processo penale, non può avere l’esito di accreditare l’esistenza, nella regolazione processuale vigente, di un sistema di prova legale che limiti la libera formazione del convincimento del giudice. Atteso che il giudice di legittimità non è giudice del sapere scientifico e non detiene proprie conoscenze privilegiate, egli deve tuttavia garantire una «correttezza metodologica» al sapere tecnico-scientifico che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto [6].
A riguardo è anche interessante soffermarsi sul fatto che non vi sia in ambito processuale, riguardo all’accertamento del rapporto di causalità e all’apprezzamento della prova, alcuna possibilità di forzatura in base a modelli probabilistici. Si è chiarito che il coefficiente probabilistico della generalizzazione scientifica non è solitamente molto importante. È invece fondamentale che la generalizzazione esprima effettivamente una dimostrata, certa relazione causale tra una categoria di condizioni e una categoria di eventi (Corte di Cassazione, sez. unite, sentenza dell’11-9-2002 n. 30328, rv. 222138).
Il giudice deve, in definitiva, dar conto del controllo esercitato sull’affidabilità delle basi scientifiche del proprio ragionamento. Deve soppesare l’imparzialità e l’autorevolezza scientifica dell’esperto che trasferisce nel processo conoscenze tecniche e saperi esperienziali. Ovviamente il giudice di merito può fare legittimamente propria l’una piuttosto che l’altra tesi. Ma deve darne congrua ragione della scelta dimostrando di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire. Non ha però la necessità di motivare nel dettaglio le proprie decisioni. Purché enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che hanno formato il proprio convincimento (Corte di Cassazione, sez. IV, sentenza del 10-01-2014 n. 492).
In ogni caso, decisivo appare il ruolo dell’esperto forense.
[1] P. Tonini, La prova scientifica: considerazioni introduttive, in Dir pen proc (2008)6, 7-11.
[2] K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970, 308.
[3] K.R. Popper, The Poverty of Historicism (1944-45); trad. it. Miseria dello storicismo, Feltrinelli, Milano 1997, 120.
[4] A.C. Doyle, Il segno dei Quattro, Newton Compton, Roma 1995, 100.
[5] G.S. Morrison, Special issue on measuring and reporting the precision of forensic likelihood ratios: Introduction to the debate, in Science and Justice (2016).
[6] Corte di Cassazione, sez. IV, sentenza del 17-09-2010 n. 43786, rv. 248944; Corte di Cassazione, sez. IV, sentenza del 12-11-2008 n. 42128.